Sterilizzare l’ippocastano?

In questi giorni su La Provincia è apparsa la notizia della proposta di SPT per la riqualificazione dell’Area Ippocastano: 2 campi sportivi coperti, spogliatoi e quant’altro, chiaramente nell’assoluta salvaguardia del monumento verde. Al di là di sottolineare eventuali opportunismi od opportunità della Società promotrice, che peraltro finanzierebbe a proprie spese l’iniziativa, mi interessa chiederci: è solo l’orror vacui, piuttosto che un bisogno di ordine (in senso più o meno civico), che muove questo inconsapevole atto verso la sterilizzazione di un luogo? E ancora: ipotizzare un serio confronto (senza facili demagogie ne strumentalizzazioni) tra la comunità insediatasi (sudamercani) e la comunità indigena (comaschi del quartiere) e magari anche i Writers locali (vedasi vecchie ipotesi dell’ex Sindaco Botta) insieme alla Società proponente e coordinato dalla Pubblica Amministrazione, finalizzato alla reimmaginazione di questo posto, seppur più impegnativo, non potrebbe contribuire a costruire quella condivisione, senza la quale si perderebbe il senso di ogni sua trasformazione? Di seguito un estratto del contributo fornito a questo proposito su l’Aria, gennaio 2006:

Storia di un luogo: l’Area Ippocastano
Quasi vent’anni fa un gruppo di cittadini si è opposto, con successo, all’abbattimento di un bellissimo esemplare di ippocastano rosa, finalizzato alla costruzione di un autosilo. L’albero era assurto a simbolo dell’identità di un luogo, e di un quartiere, e della presenza di una comunità non solo locale, che intorno all’albero si è ri-trovata. Circa cinque anni fa, in prossimità dell’area dove nel frattempo era stato localizzato provvisoriamente un “parcheggio di attestamento a raso” tuttora esistente, vengono realizzate, come opere di urbanizzazione del complesso ex-Pessina (oggi Dadone), un percorso pedonale lungo le ferrovie Nord ed un improbabile campetto da gioco in cemento. Dopo i primi anni di completo inutilizzo, vista l’ubicazione apparentemente poco felice, una comunità di sudamericani né ha fatto un luogo, dove intere famiglie nelle sere di primavera e d’estate si incontrano nell’occasione di una partita a pallavolo, con rete e tiranti autocostruiti. Indubbiamente un luogo loro, in vece di un
nostro luogo della distrazione del Piano, della confusione pianificatoria, un luogo apparentemente senza senso. Un luogo perduto dove invece si è espresso un desiderio di città, intesa come comunità che si incontra che abita, che si ri-trova in uno spazio. Sarebbe interessante, a questo punto, sapere cosa ne pensano quei semplici cittadini, e non solo quei movimenti, che quasi vent’anni prima hanno salvato l’albero attorno al quale queste persone oggi si incontrano. Se, come dice precisamente Franco la Cecla, “Abitare è una facoltà umana. E’, cioè una abilità acquisita, costruita su una predisposiozione biologica, (l’essere fisicamente presenti in un luogo) ma elaborata culturalmente, quindi condivisa con una società.”, il dato che oggi queste persone lì non si ri-trovino non è tanto per una poco ortodossa qualità di quello spazio, ma per una quanto mai sopita abitudine all’abitare. E questo noi crediamo sia causato, al di la di ogni facile retorica, sia da una cultura tecnico-urbanistica che continua ad occuparsi di produrre e localizzare edilizia anziché porsi il problema delle condizioni dell’altrui abitare, sia da una crescente mancanza fondamentale di fiducia da parte di cittadini verso la possibilità di abitare la città, come ben ci ricorda Elisabetta Forni: “Si comunica poco e male, perché manca o è insufficiente una risorsa fondamentale: la fiducia. La città non garantisce certezze -se non purtroppo spesso in negativo- e genitori e bambini non hanno le risorse per dialogare. La città diventa allora l’altro da sé: portatore o creatore di mali reali o immaginari. Non è più un luogo da esplorare e nel quale apprendere attraverso l’esperienza, ma un mondo da cui difendersi, se è il caso. [Marco Castiglioni e Alberto Bracchi]

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