«Un prete lasciato solo». Com’era visto don Renzo dall’altra parte del confine
Mentre la madre di Cristina del GF dichiara di non sapere che la figlia lavorasse come cubista, mentre Carlo Revelli scrive ai giornali per dichiarare di aver saputo nell’ottobre 2007 di essere figlio di Carlo Caracciolo ma di non volere guerre per l’eredità, mentre i vescovi ci istruiscono all’utilizzo di Facebook, mentre la Lega chiede che venga intitolata una piazza al professor Gianfranco Miglio (ma il ministro alle riforme Umberto Bossi non l’avevo definito “una scoreggia nello spazio”?), La Provincia di Como del 15 gennaio 2008 ospita una appassionata commemorazione di don Renzo Beretta, a firma di Carlo Silini su «Il corriere del Ticino».
Commemorazione che piace riportare interamente.
«Un prete lasciato solo» Com’era visto don Renzo dall’altra parte del confine
Dopo anni di imbarazzato silenzio sull’umana e spirituale avventura di don Renzo Beretta, il decimo anniversario della sua morte torna a dargli un’inattesa visibilità. La memoria del parroco di Ponte Chiasso ucciso a coltellate da un immigrato clandestino nordafricano il 20 gennaio del 1999, verrà infatti celebrata nei prossimi giorni fra Como e Ponte Chiasso. Sarà riproposta al grande pubblico la figura di quell’uomo sereno, semplice e bizzarro che si aggirava sorridente e indaffarato tra i profughi accampati sulle aiuole di fianco alla chiesa di cemento armato, un mastodonte di rara bruttezza, a due passi dalla dogana di Chiasso. Non parlava il serbo o il croato, né tantomeno l’arabo degli immigrati che a quell’epoca si accalcavano a ridosso della frontiera. Don Renzo, del resto, pensava quasi certamente in dialetto (“pruvidenza e rebelott, rebelott e pruvidenza”, amava ripetere). Ma riconosceva a pelle la lingua della fatica, della fame e del freddo. Coperte, minestre, acqua calda per lavarsi, qualche materasso in chiesa: ecco le parole universali del suo personalissimo vocabolario umanitario. E le capivano tutti. Anche quelli – non erano pochi – a cui non sono mai piaciute. Perché, a dieci anni dalla sua scomparsa, sarebbe troppo facile dimenticare che – al di là del suo motivatissimo gruppo di volontari – don Renzo era stato lasciato solo. Sappiamo che quest’affermazione è già stata e sarà sicuramente ancora respinta dai politici e dalla stessa chiesa cattolica comasca. Ma una minima contestualizzazione dei fatti mostra che sarebbe scorretto, oltre che ingenuo, affermare il contrario. Gli anni in cui don Beretta decise di aprire le porte della sua chiesa parrocchiale sono gli stessi che hanno consacrato l’affermazione della Lega di Bossi nell’Italia del Nord. Ora, basterebbe fare mente locale sui manifesti leghisti che sono apparsi appena fuori confine negli ultimi anni in tema di immigrazione (cito, a mente: “Via gli zingari da casa nostra” e “Adesso basta, fuori dalle b…”) per capire quale fosse ed è il “pensiero profondo” del movimento nei confronti degli extracomunitari. Notiamo, per corollario, che anche in Ticino e in Svizzera, nel frattempo, la polemica anti-immigratoria è cresciuta in modo esponenziale. Dalla Chiesa cattolica, che comunque è sempre stata e resta in prima fila nell’aiuto agli emarginati e agli stranieri, sono poi arrivati nello stesso periodo, in Italia, appelli alla salvaguardia dell’identità cristiana del vecchio continente che si sono tradotti in dottrine di accoglimento o meno degli immigrati a seconda della loro fede religiosa: porte aperte ai filippini, perché sono cattolici e quindi condividono con noi la maggior parte dei valori, meno aperte o addirittura chiuse per gli immigrati di altre fedi e visioni del mondo. Il vescovo di Como all’epoca della morte di don Beretta era mons. Alessandro Maggiolini, da poco scomparso. Un prelato che nei confronti dell’immigrazione non aveva mai nascosto posizioni vicine a quelle della Lega. “Si può prevedere che gli extracomunitari ammessi come italiani sceglieranno le zone della nazione più ricche e con maggiori prospettive economiche e altro. Il Nord-Est stia attento”, scriveva poco prima di morire. “Non mancherà la richiesta del lavoro – meglio se non eccessivamente faticoso – e della casa”, aggiungeva caustico. È evidente che in un simile contesto politico ed ecclesiale l’”albergo dei poveri” creato da don Renzo nella parrocchiale di Ponte Chiasso era percepito come una fastidiosa anomalia. Per i leghisti rappresentava l’esatto contrario del loro messaggio: qui trovate sempre qualcuno pronto ad accogliervi. Per i teorici cattolici di un’immigrazione regolata sulla prossimità religiosa dei richiedenti l’asilo, una negazione di fatto della loro opinione: io aiuto tutti quelli che sono nel bisogno, pensava don Renzo, non mi interessa se sono cristiani, musulmani o non credenti. Quando poi fu ucciso da uno sbandato marocchino, quasi tutti si strapparono le vesti e piansero sulla sua tomba. Ma, sotto sotto, pur riconoscendo l’eccezionale bontà d’animo del prete, ritenevano la sua morte una clamorosa conferma delle idee dominanti (“ecco cosa succede ad aiutare quella gente lì”). Don Renzo, secondo questa sottaciuta ma diffusa percezione, era rimasto vittima del proprio idealismo, se non addirittura, della propria ingenuità. Ricordarlo in questi termini sarebbe un magro tributo. Come dire: forse era un santo, ma sicuramente aveva torto. Ma don Renzo – e l’aveva dichiarato in varie interviste – non pretendeva di risolvere i problemi dell’immigrazione con qualche maglione e un pasto caldo. Agli extracomunitari non diceva: vi accolgo e vi aiuto perché è giusto che veniate da noi e restiate qui malgrado i disagi, nostri e vostri, che la vostra presenza comporta. Piuttosto: vi accolgo e vi aiuto perché – evangelicamente – avete fame, avete sete, siete ignudi. Nient’altro. Ma è ancora possibile in un mondo come il nostro e in un momento come questo riconoscere il bene e l’innocenza per quello che sono? L’impressione è che oggi, come dieci anni fa, trattare gli immigrati come “persone”, invece che come “problemi” venga percepito come un gesto altamente ideologico. Tutto questo fa a pugni con la semplicità e la naturalezza dell’impegno di don Beretta che non era costruito su manifesti politici o sociologici, ma su convinzioni maturate nella fede e soprattutto su un cuore straordinariamente empatico. Oggi tornano a farsi sentire molte parole su don Renzo. Fa davvero piacere, dopo anni di quasi oblìo. Ma, per quanto solenni, grate, commosse, e – speriamo – sincere, sono assai meno convincenti delle sue. Queste sono buone per i morti. Le sue (coperte, minestre e materassi) erano e sarebbero ancora buone per i vivi.
Carlo Silini
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