Vi sembrerà incredibile, ma a Como il lago non c’è più. O meglio, c’è ancora ma non si vede: il sindaco l’ha fatto sparire, come un prestigiatore. E invece della bacchetta ha usato un muro. Una bella muraglia stile Ddr destinata a correre da un punto all’altro dell’intero lungolago, che ha forma di semicerchio e circonda quel celebre «primo bacino» del Lario che attira turisti da tutto il mondo. Per adesso la lugubre mattonata copre il lungolago sinistro, che si chiama «Trento» e va dalla centrale piazza Cavour ai giardini in zona stadio; a lavori ultimati, coprirà anche la parte destra, chiamata «lungolago Trieste» (l’unità d’Italia si fonda anche sulla par condicio degli scempi).
Il famoso Hotel Metropol Suisse, che è sul lungolago Trento, sta già meditando di rettificare i propri dépliant destinati agli americani che vengono a vedere il paradiso scelto da George Clooney: «Grazioso ristorante con terrazza vistamuro». Il tutto è talmente assurdo che la Procura della Repubblica ha già aperto un’inchiesta e il sindaco, pressato dalla città, ha annunciato che modificherà il progetto, abbassando il muro, anche se non si sa né come né quanto. Ma andiamo con ordine, perché la vicenda oltre che grottesca è un po’ complessa. Innanzitutto una domanda. A che cosa serve questa muraglia? Se si sacrifica il panorama, è evidente che dev’esserci una ragione superiore. E invece no. La muraglia non serve a niente. Incredibile anche questo, ma vero anche questo: non serve a niente.
Il fatto, o meglio l’antefatto, è il seguente. A Como, di tanto in tanto, il lago esondava, e andava in pratica a riprendersi ciò che un tempo era suo, quella piazza Cavour ricavata al posto dell’antico porto. Succedeva, in media, una volta ogni tre anni e qualche danno – anche se niente di che – c’era. Da qui il vecchio dibattito sull’opportunità o no di erigere paratie che impedissero l’esondazione. A lungo si è discusso su come farle, se mobili o fisse, su come ridurre al minimo l’impatto ambientale e così via. Il problema però, da qualche anno, non si pone più. Perché azionando le chiuse di Olginate, nel Lecchese, l’acqua del lago defluisce verso l’Adda, e dall’Adda va a irrigare i campi del Lodigiano e della Lomellina. Quindi, le paratie non servono più. Sennonché, ventidue anni fa (sì: ventidue) c’è stata un’alluvione in Valtellina, con esiti devastanti: frane, morti, paesi scomparsi.
A Como i danni furono limitati all’arrivo di detriti. Danni, in ogni caso, da risarcire. Una legge apposita, chiamata appunto «legge Valtellina», stabilì che al Comune di Como spetta un indennizzo pari a 17 milioni di euro di oggi. Ma per usufruire di questo stanziamento bisogna costruire le paratie. Ecco perché l’opera in questione è diventata fondamentale: per avere i quattrini, non per evitare le esondazioni. Tipicamente italiano il paradosso, tipicamente italiana anche la soluzione adottata dal Comune di Como per «trovare la quadra» come dice Bossi: facciamo delle paratie mobili, e quindi non visibili quando stanno giù, all’interno di un progetto collettivo che ci permette di rifare tutto il lungolago praticamente a costo zero. Questo hanno deciso alcuni anni fa in Comune, affidando il progetto a tre professionisti di indiscussa competenza. Il progetto resta però fermo nei cassetti fino al 2003.
Seguono due anni di sonno. Nel 2005 il Comune, cominciando a sentire gli effetti della stretta finanziaria, decide di abbandonare i tre professionisti e affidare un nuovo progetto al proprio ufficio tecnico. La città è all’oscuro di tutto: ogni tanto viene mostrato qualche disegno, anzi qualche «rendering» come si dice per fare più tendenza, che assicura che sarà tutto una meraviglia. Nel 2006 si apre il cantiere, affidato a una ditta più che affidabile, la Sacaim, la stessa del Mose di Venezia. Ditta, però, tenuta a seguire il nuovo progetto. I lavori procedono senza che nessun comasco veda niente, perché una palizzata di legno impedisce la visuale del cantiere. Sennonché qualche giorno fa entra in scena il primo eroe della vicenda, un signore di 62 anni il cui nome e cognome – Innocente Proverbio – sembrano usciti dalla fantasia di Andrea Vitali, che ambienta i suoi romanzi su questo lago.
Il signor Innocente Proverbio è un pensionato e come tutti i pensionati che cosa fa? Va a vedere i cantieri. Così, sbirciando da un oblò nella palizzata, si accorge del misfatto. E siccome la seconda cosa che fanno i pensionati dopo guardare i cantieri è scrivere al giornale locale, il signor Innocente Proverbio avverte il quotidiano «La Provincia», al quale non par vero di aprire una battaglia epocale: dopo Berlino, anche Como ha finalmente il suo muro da abbattere. In pochi giorni tutta la città insorge. Anche la maggioranza, di centrodestra, è divisa. A difendere l’opera restano il sindaco, Stefano Bruni, e il suo vice, Fulvio Caradonna, assessore alle Grandi opere. Tutti e due sono del Pdl. La prima difesa è: «Balle dei giornali».
La seconda: «Abbelliremo il muro con delle fioriere». La terza è la minaccia di espulsione dalla giunta contro gli assessori dissidenti, come Sergio Gaddi (Pdl pure lui), responsabile della Cultura, che ha parlato di «un ecomostro». Ma la valanga sembra destinata a travolgere tutto, muraglia e giunta. Anche perché per fortuna la casa del sindaco Bruni è una di quelle case dove comandano le mogli. E la moglie di Stefano Bruni – Raffaella, una bella signora bionda che insegna greco e latino al liceo Volta – è la seconda eroina della vicenda. Induce a più miti consigli il consorte, che l’altra sera si presenta al Consiglio comunale straordinario dicendo che sua moglie l’ha convinto ad «abbassare il muro». Muro che – e questa è l’ultima notizia incredibile – sarebbe pure abusivo, tanto che la Procura ha aperto un’inchiesta. Di solito è il cittadino che costruisce senza l’autorizzazione del Comune. Qui invece sarebbe il Comune a non aver autorizzato se stesso. Vedremo. Vedremo soprattutto se l’abbassamento promesso dal sindaco basterà a salvare la vistalago. Mentre non c’è incertezza su chi pagherà l’eventuale abbattimento dei lavori inutili: il Comune.